Lavoratori che perdono il lavoro, che fanno lavori che non gli
piacciono, che accettano situazioni ingiuste o che aspirano senza
speranza e scappano in moto, per arrivare infine ai precari nella
definizione più canonica. Paolo Virzì e Francesco Bruni
hanno sempre parlato in qualche maniera del lavoro nei loro film, anche
quando questo non è al centro della trama. Meno hanno parlato invece
d'amore, sebbene come in qualsiasi film che si rispetti, questo è uno
degli elementi che servono a mandare avanti la trama e a generare
intrecci. Accade quasi sempre nel loro cinema ma è particolarmente
evidente in Tutta la vita davanti, dove le storie d'amore e gli affari
di sesso generano tutte le svolte del film senza esserne mai il cuore
pulsante e sentimentale (che invece, ancora una volta, è il lavoro).
Tutti i santi giorni invece, partendo dal libro
La generazione (di Simone Lenzi,
cantante dei Virginiana Miller) e tradendolo abbondantemente, ribalta
il paradigma ed usa il lavoro dei due protagonisti per generare le
svolte e parlare di sentimenti. E' quindi la prima vera storia d'amore
del duo, affrontata con tutti i crismi del genere melodrammatico, con i
classici passaggi nell'ospedale (perchè non si dà melodramma senza
l'ospedale), la passione, le sorprese, le baruffe, l'alchimia tra
protagonisti ma attraverso un'inedita (per il melò, non certo per loro)
lente ironica e grottesca. E tutto per miracolo riesce.
Il melodramma allegro di Virzì e Bruni è condito d'ironia e di
battute, non propone una visione tragica della vita e dei sentimenti ma
una più plausibile, mescolata con il grottesco della realtà senza cedere
un passo in termini di coinvolgimento e commozione. Perchè nonostante
tutto giri intorno alla ricerca di un figlio che non arriva mai, la
procreazione riesce a non rubare la scena ai due personaggi principali
(previsti in ogni inquadratura e complementari anche fisicamente)
restando un'escamotage per generare tensione, avvicinamento e problemi
nella coppia.
Se il cinema italiano fosse una lunga maratona con questo film Virzì e
Bruni tirano la volata e staccano tutti i loro contemporanei, e proprio
sul loro terreno. Tutti i santi giorni è un film in cui la storia è il
rapporto tra i protagonisti, come accade nei peggiori exploit nazionali,
in cui il vuoto delle espressioni non supportate da una sceneggiatura
(o una regia) vaga ammollo nei silenzi (in)espressivi. Solo che
appoggiandosi a tutto il proprio repertorio di varia umanità e al loro
personale universo filmico (fatto di intellettuali sottoutilizzati e
sottovalutati dalla società, di leggerezza anche nel dramma, di
complessità in ogni figura e di una costante compenetrazione di classi e
tipologie umane distanti) Virzì e Bruni riescono a girare il film che a
tutti gli altri sfugge, l'odissea nel fascino misterioso di un'unione
viscerale in cui l'uno salva l'altro (in questo senso l'aver tenuto per
il vero finale un piccolo flashback da lacrimazione obbligatoria è una
mossa da navigato maestro del melodramma).
Tutti i santi giorni è una tenera storia d'amore di Acilia, guardata con
la consueta bonarietà di sguardo di Virzì e vissuta da due personaggi
che si vorrebbe come amici e a cui si perdonerebbe tutto. Il risultato
della ruffianeria senza essere mai ruffiani, il risultato del melodramma
senza essere mai melodrammatici, entrambi raggiunti con un equilibrio
di ferro, non scalfito nemmeno da qualche caduta di stile e concessione
alla faciloneria (che pure ci sono) e sempre salvato dalla presenza di
Thony
(scelta di casting perfetta, vera cantante che canta i suoi veri pezzi,
fisico da outsider, volto imperfetto da vita vera, carisma da cinema) e
dall'incredibile Luca Marinelli, scoperta definitiva, già visto in La
solitudine dei numeri primi e qui ancora una volta determinante. Non è
più un caso, questo è il più grande talento drammatico degli ultimi
anni.
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