domenica 7 ottobre 2012

"Tutti i santi giorni". La recensione di Silvia Di Paola per Cinespettacolo.it

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Come è difficile parlar d’amore. E farlo “senza scivolare nelle solite melensaggini” dice Paolo Virzì. E farlo attraverso una coppia disperatamente in attesa di un figlio che non arriva, dunque fragile, dunque tesa, dunque sospesa tra medici e provette di sperma, dosaggi ormonali e fecondazioni assistite. Protagonisti un lui, pacifico e colto che invece di insegnare lingue antiche fa il portiere di notte e una lei musicista aspirante cantante impiegata in un autonoleggio. Ed è Tutti i santi giorni, neofilm di Virzì, dall’11 ottobre nei cinema in oltre 300 copie. In cerca di gente comune e di vita comune. O,così, ripete Virzì: “Il fatto è che siamo così abituati ormai a parlare solo dei Fiorito e dei Batman tanto che i personaggi comuni, come loro non ci sembrano più veri. Ma personaggi come loro  ce ne sono tanti, soprattutto nelle periferie delle nostre città...la verità è più sorprendente di quel che pensiamo”.
Ambientato a Roma perchè Paolo Virzì voleva “una grande città che avrebbe potuto essere anche Milano. Mi interessava mostrare questi due ragazzi sradicati, soli contro il mondo, in una periferia che sembra quella delle grandi città americane. Una Roma tradizionale tutta cupole che sembrano poppe, opulenta e incinta, una Roma contemporanea e periferica con personaggi variegati ma una città con tutto dentro, complessa, non solo feroce”, ricorda (ma neppure alla lontana si avvicina a quella qualità) Tutta la vita davanti perchè anche qui, chiosa il regista, “c’è una generazione che sembra rapinata del proprio futuro, sono tutti sottoccupati, fanno un lavoro che non ha nulla a che fare con quello che hanno studiato. Ormai è un dato di fatto, la bomba è già scoppiata e non ci sembra neanche eclatante il fatto che un musicista lavori in un autonoleggio. Nel gelo della società di oggi ho creato due persone che mi piacevano per passarci due anni di vita”.
Per farlo ha scelto “un’attrice alla prima volta, anche se per ruolo di Antonia doveva esserci qualcuno che portasse pure le sue canzoni e abbiamo trovato questa ragazza che si definisce siculo-polacca, Federica Victoria Caiozzo in arte Thony, mentre per lui abbiamo voluto un attore rodato Luca Marinelli, romanissimo di Monte Mario che fa il toscano, un ragazzo che legge la Settimana Enigmistica ma deve far finta di fare il latinista e i due si sono piaciuti subito”.E i due tacciono ma acconsentono. Pare che sul set si siano piaciuti davvero ma non è questo il punto. Il punto è il tentativo di sterzata narrativa. Tentativo, appunto.
Stavolta ho voluto raccontare come se non fosse più un dramma, non con meno rabbia ma in modo più leggero. I protagonisti fanno parte di quella generazione, questa sì intesa in senso anagrafico, che non avrà mai una pensione, guadagnano mille euro al mese e fanno in continuazione il riepilogo dei costi”. E, ovviamente, la società che vi gravita intorno “è vecchia perchè viviamo in una retorica di gioventù eterna e ci ritroviamo a 42 anni senza figli. Alla mia generazione è mancato il pensiero progettuale, pensavamo che chi aveva il potere era destinato ad averlo per sempre ed eccoci qua”.
Eccoci a questo film scritto insieme all’amico Simone Lenzi, autore del libro La generazione che mandò al regista “perché mi faceva piacere lo leggesse  e mai pensando che se ne sarebbe potuto tirar fuori un film” . Un libro (e un film) che Virzi legge “come una sorta di  monologo interiore, in parte autobiografico, raffinatissimo e delicato, un intenso flusso di coscienza alla Joyce”. E con un titolo che rimanda “ad un’abitudine del protagonista, che alla mattina, quando finisce il proprio turno alle sette, sveglia la moglie portandole a letto il caffè e illustrandole il Santo del giorno, con una breve sinossi biografica, tipo ‘Sant’Emiliano da Trevi morì accecato’, eccetera. Tutti i giorni, tutti i santi giorni”.Dunque non  solo una storia di tragedie generazionali e di rimbombanti malinconie riflessive ma anche, e Virzì ci tiene a sottolinearlo, il racconto ironico e tenero della ricerca di un figlio, nonché una celebrazione dell’amore coniugale, “così poco frequentato dalla letteratura, dello sforzo quotidiano di qualcosa di sempre nuovo, sempre creativo, sempre   capace di generare vita e reazioni vitali” Sarà.

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