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Il pacifico Guido non è fatto per l’Italia di questi anni. Difatti si è 
scelto un lavoro ben protetto e ci si è accoccolato dentro. Fa il 
portiere di notte, così ha un sacco di tempo per leggere. Poi al mattino
 rincasa, prepara una bella colazione, si infila nel letto accanto a 
Antonia e fa l’amore con lei. Non prima di averle regalato qualche 
citazione erudita sul santo del giorno e la sua lacrimevole istoria, 
perché Antonio ha un debole per i martiri protocristiani e a forza di 
leggere a volte usa un linguaggio un poco aulico che sconcerta e 
diverte.
Anche la bella Antonia, con quel viso irregolare e luminoso che non 
nasconde nemmeno un’emozione, non è fatta per il mondo in cui vive, ma 
essendo di natura irruente fa molta più fatica di Guido. Fosse per lei 
canterebbe tutto il giorno alla chitarra le sue suadenti canzoni in 
inglese che sconcertano i vicini coatti e i clienti dei bar in cui si 
esibisce. Invece ogni mattina si mette la divisa e va a lavorare in un 
autonoleggio armata solo di amore e buonumore, altre doti pericolose di 
questi tempi.
Antonia e Guido, lei siciliana di famiglia popolare, lui toscano di 
origini agiate e colte, sono i protagonisti del nuovo film di Paolo 
Virzì, Tutti i santi giorni (da domani in sala). Che magari passerà per 
uno dei suoi meno riusciti e invece, malgrado imperfezioni e 
compiacimenti, è tra i migliori per l’impeto e la grazia sorridente con 
cui sfiora temi gravi senza farsene schiacciare, accordando invece 
massima attenzione a tutte quelle piccole cose imponderabili che fanno 
il clima e il sapore, non necessariamente piacevoli, di un’epoca.
Un gesto d’amore per una generazione che aspetta ancora qualcuno capace 
di raccontarla senza giudicarla o piegarla a schemi prefabbricati (e 
proprio Una generazione si intitola il romanzo di Simone Lenzi a cui si 
ispira il film, scritto da Virzì con Lenzi e con il fedele Francesco 
Bruni). Ma soprattutto un gesto di fiducia, altra parola sospetta per 
quanto è logora e abusata. Fiducia nei personaggi, che non sono mai 
ostaggio del film (del suo discorso e dei suoi percorsi). Fiducia in due
 attori semplicemente fantastici, Luca Marinelli e l’inedita Federica 
Victoria Caiozzo, così diversi dai volti e dai corpi troppo spesso 
omologati del nostro cinema dominato da quella mostruosità che si chiama
 «reference system» (in sintesi: più lavori e più lavori, prendere 
l’attore già noto aiuta a produrre un film, e pazienza se questo 
impoverisce alla radice la varietà e la flessibilità del nostro cinema).
Antonia e Guido infatti non riescono ad avere un figlio e gran parte del
 film è dedicata alla loro odissea fra spermiogrammi ambigui, ginecologi
 chiacchieroni, affollati centri di fecondazione assistita, eccetera; 
con inevitabili scricchiolii della coppia, già minacciata dalla 
volgarità e dalla violenza di tutto ciò che li circonda. Ma tutto questo
 repertorio di scenette amene o allarmanti, lo yoga nella neve, il 
vicino che picchia la moglie, il barista che picchia Guido, il romanesco
 come unica forma d’espressione esistente, ci interesserebbe e ci 
divertirebbe assai meno se non poggiasse sulle spalle di due personaggi 
così ben disegnati e così corazzati nella loro capacità di sognare, 
sempre e nonostante tutto, un mondo diverso.
Perché anche in un cliente che vuole far sesso a tutti i costi, in 
un’infermiera sgarbata o in un gruppo di hostess che sgattaiola via al 
mattino, c’è sempre una riserva di fantasia, uno scatto di stramberia, 
una possibilità di far danzare il mondo, magari comicamente, che in 
fondo è il dono più prezioso dei due protagonisti e forse di tutto il 
cinema di Virzì.
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