mercoledì 10 ottobre 2012

Tutti i santi giorni, le recensioni. Fabio Ferzetti per il Messaggero

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Il pacifico Guido non è fatto per l’Italia di questi anni. Difatti si è scelto un lavoro ben protetto e ci si è accoccolato dentro. Fa il portiere di notte, così ha un sacco di tempo per leggere. Poi al mattino rincasa, prepara una bella colazione, si infila nel letto accanto a Antonia e fa l’amore con lei. Non prima di averle regalato qualche citazione erudita sul santo del giorno e la sua lacrimevole istoria, perché Antonio ha un debole per i martiri protocristiani e a forza di leggere a volte usa un linguaggio un poco aulico che sconcerta e diverte.

Anche la bella Antonia, con quel viso irregolare e luminoso che non nasconde nemmeno un’emozione, non è fatta per il mondo in cui vive, ma essendo di natura irruente fa molta più fatica di Guido. Fosse per lei canterebbe tutto il giorno alla chitarra le sue suadenti canzoni in inglese che sconcertano i vicini coatti e i clienti dei bar in cui si esibisce. Invece ogni mattina si mette la divisa e va a lavorare in un autonoleggio armata solo di amore e buonumore, altre doti pericolose di questi tempi.

Antonia e Guido, lei siciliana di famiglia popolare, lui toscano di origini agiate e colte, sono i protagonisti del nuovo film di Paolo Virzì, Tutti i santi giorni (da domani in sala). Che magari passerà per uno dei suoi meno riusciti e invece, malgrado imperfezioni e compiacimenti, è tra i migliori per l’impeto e la grazia sorridente con cui sfiora temi gravi senza farsene schiacciare, accordando invece massima attenzione a tutte quelle piccole cose imponderabili che fanno il clima e il sapore, non necessariamente piacevoli, di un’epoca.

Un gesto d’amore per una generazione che aspetta ancora qualcuno capace di raccontarla senza giudicarla o piegarla a schemi prefabbricati (e proprio Una generazione si intitola il romanzo di Simone Lenzi a cui si ispira il film, scritto da Virzì con Lenzi e con il fedele Francesco Bruni). Ma soprattutto un gesto di fiducia, altra parola sospetta per quanto è logora e abusata. Fiducia nei personaggi, che non sono mai ostaggio del film (del suo discorso e dei suoi percorsi). Fiducia in due attori semplicemente fantastici, Luca Marinelli e l’inedita Federica Victoria Caiozzo, così diversi dai volti e dai corpi troppo spesso omologati del nostro cinema dominato da quella mostruosità che si chiama «reference system» (in sintesi: più lavori e più lavori, prendere l’attore già noto aiuta a produrre un film, e pazienza se questo impoverisce alla radice la varietà e la flessibilità del nostro cinema).

Antonia e Guido infatti non riescono ad avere un figlio e gran parte del film è dedicata alla loro odissea fra spermiogrammi ambigui, ginecologi chiacchieroni, affollati centri di fecondazione assistita, eccetera; con inevitabili scricchiolii della coppia, già minacciata dalla volgarità e dalla violenza di tutto ciò che li circonda. Ma tutto questo repertorio di scenette amene o allarmanti, lo yoga nella neve, il vicino che picchia la moglie, il barista che picchia Guido, il romanesco come unica forma d’espressione esistente, ci interesserebbe e ci divertirebbe assai meno se non poggiasse sulle spalle di due personaggi così ben disegnati e così corazzati nella loro capacità di sognare, sempre e nonostante tutto, un mondo diverso.

Perché anche in un cliente che vuole far sesso a tutti i costi, in un’infermiera sgarbata o in un gruppo di hostess che sgattaiola via al mattino, c’è sempre una riserva di fantasia, uno scatto di stramberia, una possibilità di far danzare il mondo, magari comicamente, che in fondo è il dono più prezioso dei due protagonisti e forse di tutto il cinema di Virzì.

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